Ho appena saputo di aver perso un amico. Non per Coronavirus ma ai tempi del Coronavirus. E ho capito cosa voglia dire lasciarlo andare anche senza potergli dire addio
Era il 9 dicembre 2003, durante la mia seduta di laurea, e questa è stata la prima foto che mi ha scattato A. L. M., molto prima che diventassimo amici

Non so un granché di funerali. Conosco la teoria, certo, perché in Salento esiste un’elaborata tradizione da seguire durante un lutto, proprio e altrui, ma raramente l’ho potuta mettere in pratica. Almeno non nell’unica volta in cui davvero avrebbe avuto un senso perché quando è morta la persona più importante della mia vita ero dall’altra parte del mondo per lavoro.

Qualcosina sulla perdita però l’ho imparata e, anche se ognuno la affronta come meglio crede (e può), ho capito che per me è fondamentale quel semplice eppure straziante addio fisico. Essere lì, accanto alla bara, a salutare, ringraziare e piangere.

Una volta ho quasi creato un incidente diplomatico in Piemonte, dove ho capito solo dopo che è considerato più appropriato presenziare al rito del rosario (senza il defunto) per lasciare solo ai parenti molti intimi quello funebre. Mi sono impuntata per il saluto in camera mortuaria in ospedale, perché ne avevo un bisogno quasi fisico e doloroso, ma quando sono entrata c’ero solo io. Né un fiore, né un telegramma, né un altro essere vivente (nel senso letterale del termine).

Ho imparato a mie spese – e a costo di perdere l’amicizia del parente di quel caro estinto – che in questo campo esistono confini da non superare, ma tutti personali.

Lo premetto per spiegare cos’ho provato durante una telefonata di qualche ora fa. Ho risposto distrattamente perché pensavo a qualcosa di tutt’altro che filosofico: finalmente dopo tre mesi, sulla strada per andare in farmacia, avrei potuto fermarmi nella polleria di quartiere che finalmente ha riaperto. Insomma fantasticavo ghiottonerie in maniera spudorata, come se fossi stata a pane ed acqua per anni. Ma in realtà in lockdown avere un appuntamento, un qualsiasi cosa da aspettare con impazienza, è un dono raro e bisogna tenerselo stretto. Ecco, proprio mentre mi immaginavo addentare fumanti patate al forno, ho risposto alla chiamata.

Nel giro di dieci secondi c’è stato un blackdown emotivo, di quelli che ti mozzano il fiato. Ho saputo che qualche ora fa un amico ha smesso di respirare. No, il Coronavirus non c’entra, lui non stava bene da tempo, ma una decina di giorni fa mi ha scritto: “Io seguito a lottare e si vedrà. Un abbraccio, ragazza”.

Quell’abbraccio, quel saluto fisico, non potrà più esserci perché vive a 50 km di Roma, in un piccolo comune senza casi di Covid-19 e alla moglie è stato chiesto di non fare arrivare nessuno fuori dal paese per non alterare il record di zona senza contagi.

L’ho saputo poco dopo aver telefonato ad un comando della Polizia Municipale della Capitale, dove una gentile vigilessa mi ha informato delle varie norme da seguire. Mi stavo già organizzando per capire come rispettare la legge e al tempo stesso andare a fargli un’ultima carezza.

In questi mesi sono arrivata al massimo a due isolati da casa, bardata come una mummia egizia e sempre e solo per condizioni di necessità. Lo ammetto, non sono mai andata né a correre né a camminare in vita mia perché sono pigra, quindi non mi voto al martirio per non aver messo piede in un parco. È solo per dire che sono stata attentissima e ligia, ma siccome ci sono le condizioni per partecipare al rito funebre avrei voluto coglierle.

Non spetta a me contestare la decisione del parroco o del carabiniere che sono andati a casa del mio amico per caldeggiare queste restrizioni e infatti non voglio farlo. Anzi penso che il mio amico A. lo troverebbe fantozziano al punto di farsene una risata, perché era fatto così. Parlava per strada con tutti e conosceva il nome di ogni parente (oggi diremmo “congiunto” o “affetto stabile”) dei negozianti di zona, degli ambulanti e dei senzatetto. Voleva bene e basta, senza farsi domande.

L’ho conosciuto perché abitava al piano di sopra dell’appartamento in cui mi trovavo quasi vent’anni fa ed era uno dei più cari amici della mia coinquilina. Durante la mia laurea mancava il classico fotografo di rito perché era una sessione straordinaria istituita ad hoc per permettere di sostenere l’esame di stato da giornalista il mese prima e quindi l’orale un paio di mesi dopo. Mi dispiaceva molto non avere un ricordo professionale di quel giorno perché sarei stata la prima a laurearsi della famiglia. I miei nonni erano contadini e quindi quel giorno rappresentava un po’ il sogno impossibile di tante generazioni. Per farla breve, ci tenevo. E per un sacco di ragioni. Così la mia coinquilina ha chiesto ad A., all’epoca poco più che un conoscente per me, di aiutarla. Lui è e sarà sempre un grandissimo artista, che ha scattato servizi per riviste patinate e poi si è dato alle foto più intimiste ed indie, finché poi il digitale ha spezzato quella magia e ha lasciato stare.

Per quel giorno ha fatto un’eccezione regalandomi immagini poco convenzionali – non ha fatto neppure una foto con la tradizionale stretta di mano dopo la proclamazione, per capirci – ma ha preferito catturare risate, sguardi rubati, frase sussurrate all’orecchio, abbracci. Infatti la foto che apre quest’articolo racconta la gioia e non la fatica, l’irriverenza e non la devozione…

Da lì è nata un’amicizia fatta di prese in giro, punzecchiate e molto, molto solletico. Perché io lo soffro e lui si divertiva a vedermi scendere le lacrime agli occhi per le risate. Non so nemmeno se usare il tempo presente o quello passato, perché in queste ore devo ancora capire bene cosa sta succedendo.

Quando ho traslocato mi ha aiutato mettendo a disposizione pure la sua automobile – oltre che la sua “manodopera” – ha riaccompagnato a casa gli altri amici in auto con la sua guida spericolata e ha continuato a fare battute una dopo l’altra, nonostante l’afa del luglio romano e le varie rampe di scale. Senza contare la mia cronica incapacità di seguire le istruzioni di Marie Kondo.

Mi chiamava “fanciulla” perché è un tipo un po’ all’antica che ama vecchi classici e restaura pezzi d’antiquariato, che salva cagnolini randagi e di fatto adotta chiunque abbia bisogno di lui. Diceva che ormai gli anni passavano e poteva considerarsi una specie di figura paterna per me, uno di quei papà un po’ folli che si vedono solo nei film e che piacciono tanto.

L’ultima volta che l’ho visto dal vivo – proprio perché ha traslocato fuori città e io nella vita pre-Coronavirus ero sempre in viaggio – è stato al funerale di una comune “zia del cuore”. Io le chiamo così quelle anime splendide che amiamo più dei legami di sangue perché sono parte di noi.

Al suo di funerale, invece, io non ci potrò essere. E so che lui mi ha già perdonata perché è saggio, lo capisce e non porta rancore neppure verso chi se lo merita. Forse però la pandemia mi ha resa più irrazionale ed egoista, perché riesco solo a pensare che di quell’ultima carezza avrei avuto davvero bisogno. Scriverlo, confessarlo nero su bianco forse placherà i sensi di colpa o forse – in un mondo in cui non mi è permesso di farlo a voce – è questo l’unico modo di dirgli addio. Piccolo, semplice e libero.

Qui tutte le “puntate” dei miei diari precedenti:

Qui le precedenti “puntate” della mia vita in lockdown: