Ci ho messo 40 anni ma alla fine l’ho capito: la mia felicità non dipende dai più chili che mi mostra la bilancia. E oggi finalmente guardo la mia taglia morbidissima senza vergogna.

Oggi mi sento finalmente libera e il merito va anche ai magazine che stanno amplificando la mia voce. Cosa racconta? La storia di una vita intera – la mia, in questo caso – passata a sentirsi fuori posto, troppo ingombrante per gli standard comuni. L’ho raccontato sul numero di agosto del mensile family free press Acqua e sapone, in uno speciale dedicato al corpo, all’obesità e all’accettazione di sè, in un file rouge che parte dagli esperti per raccontare esperienze quotidiane.

Ecco l’articolo:

Se ami qualcuno friggi per lui o per lei. E così da bambina, d’estate, aspettavo la domenica mattina per svegliarmi con il rumore dello sfrigolìo dell’olio in padella, dove ogni sapore raggiungeva il picco assoluto. Polpette, panzerotti, fettine panate, arancine e calzoni: il menù light per una giornata al mare prevedeva un assortimento degno della vigilia di Natale.

Se ami qualcuno lo vedi sempre “sciupato”. Mi sono sentita ripetere questa parolina per tutta l’infanzia, nonostante fossi sempre stata in carne, robusta o, come si dice oggi, curvy. In famiglia, dove molte donne erano tanto alte quanto larghe, la circonferenza della vita non sembrava mai abbastanza. In passato, ai tempi della guerra, non avevano patito la fame solo perché contadine e da quel momento in poi le guanciotte sono diventato sinonimo di felicità.

L’INFANZIA ROTONDA
Per tutta la scuola materna ci ho creduto fermamente, anche perché il mio nonno del cuore portava sempre alle maestre le rose di campagna e a noi bambini le caramelle più golose. E lui, un agricoltore con i pantaloni tenuti su con lo spago alla caviglia e le mani blu per lo zolfo, era diventato l’eroe di tutti i compagni di classe.

Il mio mondo iniziava e finiva lì, con un gusto dolcissimo. Certo, dall’età di quattro anni ho iniziato ad andare dal dentista, ma ormai era mio amico e gli facevo visita anche da sola in bicicletta, solo per chiacchierare con l’infermiera dello studio e per fare compagnia ai pazienti spaventati in sala d’attesa.

Alle elementari, però, la musica ha iniziato a cambiare: svettavo per altezza su tutti i compagni, anche i maschietti, e finivo sempre in ultima fila. Ai saggi di ginnastica di fine anno non riuscivo a saltare la cavallina con la stessa disinvoltura degli altri e quando, il giorno della prima comunione, la migliore amica dell’epoca si è presentata con il mio stesso abito, a colpo d’occhio ero il doppio di lei e mi sono rifiutata di farci una foto insieme.

Complici le battutine all’ora della ricreazione, mi sono resa conto di essere “fuori misura”. Alle medie è andata anche peggio: mi guadagnavo l’immunità dai gavettoni e dalle prese in giro promettendo un aiuto con i compiti ai vicini di banco.

L’ADOLESCENZA RIVELATRICE

Se avessi avuto bisogno di un’ulteriore conferma, ci ha pensato l’implacabile adolescenza. Le altre ragazze del paese erano proporzionate, attraenti e disinvolte e io attribuivo queste doti da Wonder Woman alla magrezza. Evitavo le foto, soprattutto in costume (rigorosamente intero) e cercavo di diventare invisibile per evitare l’ennesimo sguardo di derisione. Più passava il tempo e più si notava questa “diversità nelle forme”. Le mie erano sempre troppo rotonde, troppo piene, troppo e basta. Non avevo raggiunto la maggiore età e già volevo scappare lontano, pur non sapendo dove e probabilmente solo da me stessa e da quella pelle che mi stava stretta. Ho iniziato a perdere peso, ma non era mai abbastanza, finché qualche anno dopo ho raggiunto i 59 chili (per 175 cm d’altezza) e, finalmente, al posto degli insulti sono arrivati i complimenti. Ma dentro di me è cambiato poco: continuavo a camminare per strada rasente al muro, con la solita tendenza a scomparire, e ho iniziato a lasciarmi ossessionare dalle calorie. Anche se mi si vedeva la clavicola e avevo il viso emaciato, stare a stecchetto non limava certo le ossa grosse e quella “costituzione robusta” che il medico di famiglia ha sempre sottolineato (almeno non mi chiamava “bidone”, come gli sentivo dire ad altri bambini). Niente da fare, mi sentivo cicciona dentro.

MAGREZZA MEZZA BELLEZZA?

Ad un certo punto le attenzioni mi mettevano talmente a disagio che ho tagliato i capelli cortissimi, nella speranza di ritornare ad essere invisibile. La sensazione familiare di essere costantemente fuori posto e fuori misura mi ha seguito ovunque. Per l’intera estate dei miei 19 anni mi sono data all’arte dello spiluccamento, invece di mangiare, convinta che sarei stata uno schianto nel tubino strettissimo indossato come testimone di nozze al matrimonio della migliore amica. E per un giorno intero mi sono davvero sentita “abbastanza magra” da valere qualcosa. Eppure non ero più io, avevo perso il sorriso e di certo non avevo acquistato punti sulla patente dell’autostima perché il cibo – che ho sempre considerato sinonimo di amore e felicità – si è trasformato in un nemico mortale. Abitavo un corpo che non era il mio, un guscio vuoto e malandato di un’anima allo sbando e probabilmente alla ricerca di una fetta di tiramisù. Ad un certo punto ho iniziato a frequentare probabilmente il ragazzo più avvenente con cui sia mai uscita, uno di quelli che fa parkour, è cintura nera di karate e scala le montagne a mani nude. Mi ripeteva “Sei bellissima”, ma io la ragazza di cui parlava la conoscevo appena e non mi piaceva affatto. Quella leggerezza fisica non mi ha regalato la tanta sospirata accettazione. Ancora una volta l’affetto aveva delle condizioni e presupponeva che campassi d’aria. La dieta aveva spento i colori e il mondo era diventato solo uno scenario di tentazioni pericolose con calorie costantemente in agguato dietro ogni angolo.

A Nassau nel 2019

IL SORRISO RITROVATO

Ad un certo punto ho mollato la presa, iniziando pian piano a riscoprire quei piaceri della tavola che mi hanno sempre illuminato le giornate. Ho regalato la bilancia, ho smesso di guardare la focaccia barese come se fosse l’incarnazione del Male assoluto e ho ricominciato a gustarmela con la stessa devozione assoluta provata da piccola. I sapori sono tornati ad essere una forma d’arte, una poesia incantevole, un’esplosione di fuochi d’artificio e io ho ripreso rotolini e maniglie dell’amore. Il ritornello degli incontri è tornato lo stesso di prima, con un coro di “Come ti sei ingrassata”, “Ma cosa ti è successo?”, “Stavi tanto bene prima” e “Resterai zitella a vita”.

Ho capito però chi diceva che fosse “meglio un chilo in più e vivere felici”. Mi sono consultata con una nutrizionista, ho tenuto sotto controllo la salute perché qui non si tratta di “grasso è bello” ma di guardarsi allo specchio e volersi bene, senza alcuna vergogna. Sono una buona forchetta e, se potessi, dipingerei un murales di fronte casa con la frase che un giorno ho letto su una cartolina ad Amsterdam: “La vita è breve, inizia dal dessert”.

FINALMENTE UNA GIOIA

Quando l’artista francese Nordine Sajot mi ha chiesto di prendere parte al suo progetto fotografico al femminile 07 Dolori con uno scatto d’autore in gelateria non ho potuto rifiutare. Fa parte di un percorso di rinascita iniziato, per caso, un anno fa, quando mi è stato chiesto un articolo sul bodyshaming raccontato in prima persona. Per la prima volta mi sono messa emotivamente a nudo raccontando insicurezze e fragilità. E, invece della solita valanga di insulti, ho ricevuto solo commenti di tante persone che, per motivi anche diversi dai miei, si sono sentite altrettanto inadatte. L’organizzazione no-profit internazionale Terre des hommes mi ha chiesto di tenere un discorso all’evento milanese Stand up for girls e mi ha scelto tra i testimonial di una campagna per realizzare una statua, sempre nella capitale della Lombardia, a memoria delle bambine e delle ragazze vittime di violenza. Ho ritrovato all’improvviso la voce interiore che ho sempre zittito e ho condiviso il mio desiderio più grande, un mondo dove ci sia spazio per tutti, basato su gentilezza e rispetto. Certo, metterci la faccia mi ha anche attirato online alcuni hater che mi hanno riempito d’insulti mi hanno invitato a nascondermi. La prima reazione è stata la vergogna, seguita poi dal solito retropensiero “Chissà cos’ho fatto per meritarlo”. Immediatamente dopo mi ha colpito in pieno la consapevolezza della profonda ingiustizia di questi atti di bullismo: ho segnalato i commenti offensivi a Instagram, ne ho parlato pubblicamente e sto per denunciarli alla polizia postale. In sintesi, non accetto più che qualcun altro mi definisca o parli al mio posto o mi faccia sentire di nuovo inadeguata. Il problema, in fin dei conti, non sono stati mai i chili, anche se chiunque avessi accanto ha sempre sostenuto il contrario.

La società mi ha fatto credere – e io ci ho creduto – che fosse una taglia a definirmi e che solo un girovita stretto mi potesse garantire un pass per diventare una creatura accettabile e quindi degna d’amore. Non è così, ci ho messo 40 anni a capirlo ma oggi mi vedo davvero, di nuovo contenta di godermi una bella granita con la brioche siciliana, senza sensi di colpa e scuse.

Finalmente posso dirlo a testa alta: questa sono io. Curvy (e sto).

INCLUSIVITA’ IN ITALIA E ALL’ESTERO: Mentre molti grandi brand italiani latitano sulla questione della democrazia delle taglie, si moltiplicano gli esempi virtuosi di artigiane che puntano alla moda sostenibile e all’inclusività, tra cui Laura Brioschi di Body Positive Catwalk, Eleonora Mesiano di Chiò cosmesi naturale, Carolina Emme e Sara Bertelli di Sartoria Sovversiva. Non ho ancora sperimentato l’opzione di shopping online perché scoraggiata dall’ipotesi di occupare le giornate ad organizzare i resi della merce. In qualunque parte del mondo mi trovi, però, cerco immediatamente la catena britannica Mark & Spencer, che offre a prezzi contenuti un assortimento di tutti i capi in ogni forma e dimensione. Dal 2019 ho aperto un sito, Air Quotes, che parla anche di questo, di body positivity e self love, uno spazio sicuro dove condividere storie ed emozioni senza taglie.

L’articolo è stato pubblicato sul numero 191 del mensile free press Acqua e sapone (agosto 2020), pagg.42-44, che è possibile sfogliare qui e leggere anche qui.