Ho la gola secca, le mani sudate e il battito cardiaco accelerato. Sapevo che sarebbe successo oggi ma forse non ero ancora pronta perché regalare la propria storia è una delle forme di fiducia più alta.
A me succede quotidianamente perché come giornalista ricevo in dono il racconto di qualcun altro e ogni volta cerco di prendermene cura, di farne tesoro, di rispettare l’intento originale… ma stavolta è diverso.
Sono le mie parole, la mia storia morbida morbida (ma solo nelle curve), ad essere consegnate con il cuore aperto ad altre mani, ad un’altra penna, ad una sensibilità diversa dalla mia.
E non potrei essere più commossa che ad accoglierle ci sia stata Patrizia Ruscio, sul numero del settimanale Confidenze, oggi in edicola.
Ecco il contenuto del racconto appena pubblicato:
“La mia infanzia è segnata da due paroline: stai sciupata.
Per chi ancora non lo sapesse, lo stare sciupati è la tragedia massima che può capitare a una madre o a un parente meridionale.
Eppure, vi assicuro che io sciupata non lo sono stata mai! Ho sempre avuto le guance paffutelle, le cosce cicciottelle e le maniglie dell’amore, ma del resto come si fa a resistere alle prelibatezze che sfornano le famiglie del Sud Italia?
La domenica prestissimo iniziavano i preparativi per il pranzo e tutto quello che poteva finire in padella ci finiva. Io mi svegliavo inebriata dai profumi che provenivano dalla cucina e non vedevo l’ora che di condividere la mensa con la mia famiglia, in un’atmosfera di allegra convivialità.
Il cibo era il modo in cui i miei esprimevano il loro amore nei confronti di noi figli, e mangiando, in definitiva, non facevo altro che accogliere il loro affetto. Ovviamente anche mia nonna e le mie zie erano allineate a questo pensiero e quando andavo a trovarle mi rimpinzavano di ghiottonerie.
Mia nonna materna aveva un negozio di alimentari, la classica bottega di paese, colma di ogni ben di Dio.
Le facevano eco i miei nonni paterni che erano contadini e quando andavo a trovarli in campagna mi offrivano ora il fico d’india, ora l’albicocca, poi l’anguria… e poi che fai, non te lo prendi un ovetto fresco?
Insomma, sono nata programmata per pensare che la realtà fosse mangiare quanto volevo e con gioia perché la guanciotte e le maniglie dell’amore erano sinonimo di salute e benessere. Poi sono cresciuta e ho capito che i canoni estetici che mi avevano inculcato in famiglia non erano assoluti. Quando ho cominciato ad andare a scuola ho capito che essere paffutella era tutt’altro che un valore aggiunto, anzi. Nella mia classe c’erano le bambine graziose, quelle con il vestitino carino e senza un capello fuori posto. Ragazze di questa categoria ne avrei incontrate tantissime in futuro, mi riferisco a coloro che sembrano ignifughe, con la messa in piega perfetta come appena uscite dal parrucchiere anche se fuori piove a dirotto. Sono sempre in tiro, mai un capello fuori posto, camminano su un tacco dodici dalle otto di mattina alle otto di sera e anche oltre e hanno delle borse microscopiche dove non ho mai capito come facciano a far entrare le cose.
Intanto mi allenavo a conoscere queste Miss in erba che frequentavano la mia classe.
Se loro erano fighe io la più alta e stavo sempre all’ultimo banco.
La mia statura si imponeva su tutti e anche se nelle foto di gruppo cercavo di mimetizzarmi dietro alla maestra non c’era niente da fare, la proporzione rispetto agli altri si notava lo stesso. Mi sentivo ingombrante e fuori posto ma per quanto potessi strizzarmi e nascondermi, il mio fisico robusto rimaneva tale e quale, anzi, paradossalmente si notava di più.
In quella circostanza nacque una piccola grande crisi che è durata fino all’estate del 2019, quando ho deciso di raccontare la mia storia in prima persona, scelta che ha rovesciato le carte in tavola. Prima, però, sono passata attraverso l’adolescenza, una dieta che mi ha tolto chili e sorriso e le frecciatine dei miei compagni di scuola che spesso si trasformavano in offese.
Fino al giorno prima che ne scrivessi c’è sempre stato qualcuno che si sentiva in diritto di farmi battute, vere e proprie aggressioni verbali, che spaziavano dal: “Ce la godiamo la vita, eh? Se vede che ti piace la lasagna!” (con tanto di sorrisetto sarcastico in sottofondo) al “Ma com’è che ti sei ingrassata così tanto? Non stai bene?” o peggio ancora: “Con le ragazze come te uno ci va a letto e basta”.
Me ne hanno detto di tutti i colori.
Mi sono difesa con l’arma più letale in mio possesso: la lingua. Modestie a parte, quando mi ci metto ho un repertorio così tagliente da far invidia a una campionessa di fioretto. Anche questo è un preziosa eredità della mia famiglia d’origine, pervasa da una vena umoristica un po’ dark.
Però, anche l’ironia che ho sempre usato come scudo non è un superpotere che mi ha permesso di diventare impermeabile alle offese. Anche io ho vacillato, come tutte le persone che vivono una situazione analoga alla mia, finché il destino mi ha riservato una bella e inaspettata sorpresa.
In occasione dell’uscita di “Dolcissime”, una commedia coraggiosa sul fenomeno del body shaming, mi è stato chiesto di scrivere un parere. La cosa buffa è che ho scelto di fare la giornalista per raccontare le storie degli altri, e raccontare la mia storia mi è sembrata una richiesta un po’ bizzarra.
Mi trovavo al Giffoni Film Festival, e nel brevissimo tragitto che mi separava dall’hotel ho messo nero su bianco tutte le emozioni che mi hanno fatto soffrire negli anni.
Per quanto non sia una persona timida né una che infiocchetta la realtà, è stato terribilmente difficile scrivere di quella volta in cui mi sono seduta nell’angolo di un camerino e ho pianto perché una commessa mi aveva insultata, oppure di quell’altra volta in cui non riuscivo a trovare un vestito neanche se mi ammazzavo e questo mi faceva sentire inadeguata.
Non è facile raccontarlo a voce, figuriamoci a scriverlo. Però mi hanno chiesto un articolo su questo argomento e io da brava soldatina l’ho scritto.
Mi sono presa in giro dicendo di essere una “taglia Nutella” o “diversamente magra”.
Morale della favola: l’articolo è stato ripreso da altre testate ed è diventato virale. E a più di qualcuno non è proprio andata giù.
Sono stata insultata sia dal vivo che sui social.
Fino a pochissimo tempo fa avrei pensato di essermela cercata perché non voglio rinunciare al piacere del cibo, ma stavolta ho capito che a sbagliare sono loro, gli hater, perché ognuno ha diritto di vivere la vita che vuole e stare nel corpo che desidera e non in quello che rientra in stereotipi che qualcun altro ha scelto al tuo posto.
Ho denunciato le offese ricevute agli amministratori di Facebook e uno degli hater è stato bannato.
Ora ho smesso di prendermi in giro e scusarmi se il mio corpo non rientra in certi parametri.
Ho smesso di dare spiegazioni e chiedere il permesso di essere me stessa.
Con questo non voglio dire che se fino a quarant’anni mi sono sentita un brutto anatroccolo ora, dopo aver condiviso la mia esperienza, mi sento all’improvviso bellissima, però ora ho gli strumenti per nutrire la mia autostima e volermi bene.
Se prima facevo di tutto per sfuggire alla mia immagine riflessa nello specchio, mi coprivo con maglioni informi che mi facevano sentire invisibile (perché pensavo di cavarmela meglio se riuscivo a scomparire), per la prima volta in quarant’anni ho indossato un bikini e mi sono regalata un bel servizio fotografico. Quello che vedo ora quando mi guardo nello specchio è una ragazzona sorridente a cui voglio bene, con tutti i suoi rotolini e maniglie dell’amore.
Quella ragazza ora è serena e se ne frega del giudizio degli altri, si passa il rossetto, disegna il contorno degli occhi e con gioia ogni giorno rinnova un patto con se stessa: curvy e sto!“
L’articolo integrale è stato pubblicato sul settimanale Confidenze, numero 23 del 25 maggio 2021:
Per i servizi fotografici si ringrazia:
Location: Gocce Di Capri – Hotel & Serviced Residence e Canne Bianche – Lifestyle Hotel #supplied
Eco-fur: Sabelle Atelier feat. Alessandra Montana Allumeuse Communication
Outfit: Fabbrica di Giuggiole #supplied e Theoliviadress #gifted
Ph: Vanessa Joey Arciero – So Fashion