Un festival brilla quanto il suo programma. Dietro ogni scelta, ogni nome in cartellone c’è una lunga serie di decisioni. A prenderle, nel caso della Mostra del Cinema di Venezia, è un comitato di selezione dei film in concorso formato da sette professionisti del settore, più il direttore Alberto Barbera. Ne fa parte anche il 38enne critico cinematografico Emanuele Rauco, che per la rubrica Venice People (qui i racconti di Paola Casella della Settimana della Critica, dello chef Tino Vettorelli e del general manager dell’Hotel Danieli Gianrico Esposito) ha deciso di socchiudere la porta della “sala comandi” e di un meccanismo che lo porta a visionare ogni anno tra i 600 e gli 800 film.
Ci permette così di sbirciare dietro ai meccanismi che portano alla realizzazione di uno degli eventi culturali più prestigiosi al mondo, che frequenta dal 2010, quando – ricorda – mise “piede in sala Darsena per vedere il film d’apertura Il cigno nero. Fu piuttosto emozionante”. Già giurato in alcuni festival di corti, oggi è co-direttore artistico del Catania Film Festival (assieme a Cateno Piazza e Laura Luchetti).
Ricorda la prima “recensione” da bambino?
Sì, sul mio diario personale a 12 anni scribacchiavo giudizi, il primo fu per A 007, dalla Russia con amore. No, non è stato subito il mio sogno: prima volevo fare l’attore, poi il regista e lo sceneggiatore. Poi a 25 anni, mentre finivo il DAMS, ho capito che quello che avevo sempre fatto da ragazzino era scrivere di cinema, e che forse avrei potuto farne un lavoro.
Ci spiega meglio cosa vuol dire essere un selezionatore?
Significa cercare di dare al pubblico della Mostra la più ampia varietà possibile con l’obiettivo di pescare il meglio tra i 1500/2000 film che arrivano ogni anno, significa cercare di capire i tipi di cinema differenti e valorizzarli all’interno delle singole sezioni sposando i grandi autori con le scoperte, il cinema più impegnato o radicale nella forma e quello più popolare. Significa soprattutto dare uno sguardo ampio e privilegiato a una bella fetta della produzione mondiale e filtrarla in un’ottantina di film.
Prima di questo ruolo è stata coinvolto nella Mostra in altri incarichi?
No, per questo quando mi è arrivata la telefonata del direttore Barbera è stato una specie di fulmine a ciel sereno che mi ha bloccato il respiro per qualche secondo. Quest’opportunità mi ha permesso di conoscere innanzitutto gli altri colleghi del comitato, che per la maggior parte non mi avevano mai neppure sentito nominare, e di capire meglio come funziona la macchina di un festival, una competenza – oltre l’affinamento critico – che posso sfruttare anche negli altri eventi in cui lavoro.
Esistono dei criteri che rendono dei film “perfetti per Venezia”?
Partendo dal presupposto che il film deve essere “bello”, secondo le ottiche diverse e i gusti differenti di ognuno di noi 7, credo che un festival come Venezia, Cannes o Berlino non possa avere delle linee editoriali perché per storia e posizionamento nel mercato hanno il compito di mostrare il cinema nelle sue sfaccettature, mettere al centro i vari gradi dell’esperienza. Certo, ogni direttore poi si concentra ovviamente su alcuni filoni, generi, temi, autori o semplicemente accentua la linea secondo il proprio polso, ma di base penso che un festival come questo debba essere più poliedrico o schizofrenico possibile.
Cosa distingue la selezione di Venezia da quella degli altri maggiori festival cinematografici al mondo?
Non saprei, perché va a fasi, segue le tendenze del momento e la sensibilità dei singoli direttori: l’idea è valorizzare il film e il percorso dei suoi autori e permettere loro di incontrare il più vasto pubblico possibile, ma probabilmente vale anche per Cannes e Berlino. Non so rispondere, perché come dicevo prima non essendoci una vera e propria linea ci limitiamo a osservare come cambia il mondo del cinema provando a carpirne il meglio.
Un incontro speciale a Venezia?
L’incontro con Guillermo Del Toro prima quando ha vinto con La forma dell’acqua – l’ho salutato, mi sono complimentato e lui per ringraziarmi della selezione mi ha dato una pacca sulla spalla da svenire – e poi l’anno dopo, quando era presidente di giuria, eravamo nel medesimo luogo, ovvero alla cena di chiusura, lui mi ha riconosciuto e lì gli ho detto che avrei scritto un libro su di lui, cosa che poi ho fatto. Avrei anche voluto intervistarlo per il libro, ma non c’è stato modo.
Un festival a cui ancora non ha partecipato e che vorrebbe conoscere più da vicino?
Forse quello di Locarno, perché ha una linea editoriale fortissima, dedita al cinema di ricerca o di avanguardia, più sperimentale e radicale, che mi incuriosisce molto. Oppure il Sundance, che è dove i giovani talenti USA nascono.
Il prossimo sogno professionale?
Poter fare il mio lavoro, che è quello del critico sia come scrittore che come organizzatore di eventi, per sempre o nel migliore dei modi. Certo, dirigere un festival è bellissimo e anche crearne uno o assumersi la responsabilità di un grande evento deve essere fantastico, ma le ambizioni non si sposano con la mia “pigrizia” in senso di oneri, responsabilità, pesi da sopportare. Per cui preferisco fare ciò che so fare – o così mi hanno fatto credere – e se possibile farlo sempre meglio.