Quindici anni negli scout e tutta la vita accanto agli ultimi: Maria Giulia, infermiera piemontese, ha scelto il servizio, non solo nel tempo libero e nel volontariato, ma come lavoro. Ecco come aiuta il prossimo h24…
Maria Giulia Buffa, infermiera piemontese

Non si educa a parole ma con l’esempio (Maria Giulia Buffa)

Nella casella del “tempo libero”: è lì che i più generosi inseriscono la voce “volontariato”. Si ritagliano, insomma, spazio per gli altri nei momenti in cui sono lontani dalla scrivania, dalla cattedra, dal campo, dal tribunale o da qualsiasi luogo costituisca il loro posto di lavoro. Lei no: Maria Giulia Buffa, trentenne piemontese, resta “in servizio” 24 ore al giorno. E appena finisce il turno da infermiera nell’ospedale dov’è stata assunta passa il resto della giornata o della nottata come volontaria della Croce Rossa, su un’ambulanza.

Per partecipare al matrimonio della migliore amica Sara ha chiesto un permesso: un’eccezione, un “lusso” che si concede di rado e non senza qualche senso di colpa per essersi sottratta a chi aveva bisogno di lei. Lo spirito di servizio gliel’ha insegnato la madre Renata, medico di base, assieme alla fede: “La messa – ricorda Maria Giulia – era un’esperienza “di famiglia”, primo passo verso il catechismo e l’AGESCI. In seconda media mamma mi ha consigliato di partecipare ad un incontro scout e da allora ho trascorso lì metà della mia vita. All’inizio i messaggi educativi arrivavano attraverso gli strumenti del gioco o delle canzoni, ma solo dopo ho capito quanto profonde fossero le radici cristiane che avevo ricevuto”.

Con il tempo, e dopo aver professato le scelte di fede, servizio e politica, è diventata capobranco, cioè educatrice di 30 bambini dagli 8 agli 11 anni: “Ho ancora il pupazzo di un dinosauro me l’ha regalato uno di loro che mi ero preso particolarmente a cuore perché aveva un deficit dell’attenzione. Quel giocattolo era il suo preferito e l’ultimo giorno del campo ha voluto che lo avessi io”. Non si tratta di un riempitivo delle giornate: “Non è un hobby – precisa lei  – ma un impegno: scout una volta, scout per sempre. Se esci con gli amici il venerdì o il sabato non puoi fare tardi se il giorno dopo devi essere all’alba in sede o devi animare la messa domenicale. Il resto viene in secondo piano, ma lo fai volentieri perché non si educa a parole ma con l’esempio. Una volta, ad esempio, abbiamo organizzato una recita in cui ognuno di loro doveva travestirsi e decidere a parole sue come far terminare una parabola seleziona al sacerdote che ci seguiva”.

“Nel frattempo studiavo informatica all’università. A metà percorso mi sono resa conto – parole sue – di aver fatto la scelta sbagliata: passare la giornata davanti al pc non era la mia strada ma uno spreco di tempo e soldi. Ho ricevuto la seconda “folgorazione” della mia vita: dovevo cambiare rotta, ma non prima di aver conseguito la laurea e onorato il mio impegno, così ho iniziato a lavorare per pagare la retta. Il Signore ha un disegno per ciascuno di noi e io dovevo capire quale fosse”. 

La prima “scossa” era arrivata tempo prima: “Ero appena patentata – dice Maria Giulia – e stavo tornando a casa da una riunione scout. Mi ha sorpreso un colpo di sonno e ho lasciato il volante: mi sono schiantata e ho distrutto la macchina, pensavo di morire ma ne sono uscita illesa. Ancora oggi penso che Dio mi abbia voluto salvare, in un’illuminazione “sulla via di Damasco”, come la chiamo io”.

Ognuno di questi momenti ha generato un desiderio di cambiamento e ha portato frutti incredibili: “Per due anni ho partecipato ad un campo di formazione scout in Bosnia. Sarajevo, dieci anni dopo la guerra, aveva i buchi nei palazzi e parchi giochi trasformati in campi minati. Noi aiutavamo a pulire le case dei cittadini che vi facevano ritorno dopo l’esodo. Una ragazza era appena tornata dall’estero: il pavimento era coperto dei giochi che nella fuga aveva abbandonato. Mi ha mostrato un muro trivellato di proiettili dove ha assistito alla fucilazione dei genitori e del fratello. Ed io ero lì, a mettere le mani tra i pezzi della sua vita e i bossoli delle armi: è arrivata la mia terza “svolta”. Così ho speso 10 giorni a Udine in un centro per disabili e ho deciso di passare la notte di Capodanno con gli ospiti delle suore del Cottolengo a Torino. L’ho fatto anche quest’anno nella Croce Rossa di Alessandria perché mi trovo più a mio agio a prestare assistenza agli ubriachi per strada che a festeggiare in discoteca l’arrivo dell’anno nuovo”.

“Non ricordo di aver trascorso le tipiche vacanze da “compagnia delle superiori” – confida Maria Giulia – perché partecipavo ai campi estivi. Gli amici lo capiscono solo se fanno parte dell’ambiente, il fidanzato no, si sente minacciato. Ecco perché si dice che gli scout si sposano tra loro: vogliono accanto qualcuno che capisca il senso del sacrificio. Nel mio progetto di vita familiare voglio che questi valori siano alla base”.

 “Un marito e moglie scout mi hanno raccontato del GOUM, un’esperienza di otto giorni cosiddetti di deserto, qualcosa che ti azzera, ti frantuma e ti permette di ricostruirti. Ho deciso di farla in Sicilia: cammini 25/30 km al giorno, con un saio di lana, sotto il sole cocente finché il tuo corpo non arriva alla temperatura esterna, con braccia e gambe coperte. Ti svegli alle 5, partecipi alla messa, fai una frugale colazione e a mezzogiorno parti. Dormi all’aperto e mangi un pugno di riso a pranzo e uno a cena. In quella settimana dovevo tenere insieme anima e corpo, aggirandomi per i campi con la bussola in mano sudando e purificando il fisico. Quando stavo sul punto di cedere una giovane di un paesino si è avvicinata chiedendoci se fossimo pellegrini. Abbiamo risposto di sì e ci ha invitato ad entrare in casa a pregare per la sua figlia malata di cancro. Io pensavo: “Io sono l’ultima degli ultimi, perché il Signore dovrebbe ascoltare proprio me?”. Ecco, lì ho capito cosa fosse una fede pura e cosa volesse dire condividere tutto quando non hai nulla. Sono partita senza conoscere nessuno e nel cammino ho trovato dei fratelli trovando una forza che non pensavo di avere. Se fosse stata per me ad un certo punta mi sarei messa a dormire in mezzo alla campagna per la stanchezza e invece ho proseguito fino alla fine quando la mia compagna di viaggio della tappa si era disidratata e si fermava ogni dieci metri”.

Quell’esperienza è stato solo l’antipasto: per due anni ha fatto con il papà Mario il Cammino di Santiago, in condizioni altrettanto difficoltose: “In entrambi i casi ho camminato con il menisco lesionato, portando una ginocchiera. Ho percorso 800 km ma ne avevo bisogno: mi sono messa alla prova per cercare, come in passato, le ragioni vere per andare avanti, quelle che ti fanno ignorare le bolle sotto i piedi, il mal di schiena, il dimagrimento. Lui non mi ha mai lasciato sola”.

Si chiama Medici senza frontiere il sogno di Maria Giulia: “Sto ultimando un master in medicina d’emergenza – dice la giovane infermiera – perché nel volontariato medico servono competenze e qualifiche, oltre ad esperienze in area critica. Andrei ovunque con loro, specialmente nel Continente Nero. Sento il mal d’Africa prima ancora di esserci stata, forse perché qualche anno fa sarei dovuta partire per il Burkina Faso con gli scout. A due settimane dal volo, dopo essermi sottoposta ai vaccini e aver ottenuto il visto, il mio capo ha avuto un imprevisto. Da allora per me è diventata una necessità. Madre Teresa diceva che ognuno di noi è una goccia nell’oceano eppure se non ci fosse allora il mare ne sentirebbe la mancanza. Io non voglio recarmi in quei luoghi con la presunzione di fare la differenza, ma con la consapevolezza che al ritorno sarei un cristiano diverso e una persona migliore”.

L’intervista è stata pubblicata sul settimanale “A sua immagine”, numero 83, 9 agosto 2014