Stanotte a Roma c'è stato il terremoto. L'ho sentito, ma ho continuato a dormire, scambiandolo per il solito incubo in tempi da Coronavirus. E poi...

Sono passati tanti terremoti nella mia vita. No, non parlo per metafore e non mi riferisco ad amori turbolenti o al lutto più devastante. Stavolta intendo proprio terremoti fisici, con le scosse e tutto il resto. Non ne ho mai sentito nessuno e puntualmente ne scoprivo la presenza dagli SMS di amici geograficamente distanti e preoccupati. Ero sfacciatamente orgogliosa del mio sonno pesante e mi dicevo che neppure quando la terra mi tremava sotto i piedi riuscivo ad accorgermene.

Stanotte è successo.

Mi sono svegliata, nel mio lettone romano, me ne sono accorta e ho sentito tutti i fulmini e i lampi apocalittici del temporale di qualche secondo dopo. Non mi sono neppure messa seduta, né ho acceso la luce o aperto gli occhi.

Ho semplicemente pensato fosse uno degli incubi che popolano le mie notti in questo periodo di pandemia. Così ho continuato a dormire come nulla fosse, girata dall’altro lato.

Questa mattina mi sono svegliato e ho capito che era tutto vero. Ho ricevuto un solo messaggio su Whatsapp: forse persino ai disastri ci si abitua, dopo tutto.

Agli Universal Studios di Orlando, in Florida, nel 2019
per il reportage sul Wizarding World of Harry Potter

La realtà è diventata un incubo e gli incubi di conseguenza si sono trasformati in affreschi troppo vividi delle paure quotidiane. Così non capisco più quando sono sveglia e quando sto dormendo, perché di fatto quel genere di sogni intesi come progetti e aspettative si sono affievoliti in una nebulosa indefinita.

Quindi non mi spaventa più neppure il terremoto… e non perché sia la versione femminile di Giovanni Cuor di Leone. Perché, da qualche parte nel mio inconscio, è come se mi aspettassi un’altra tragedia e fossi pronta a parare il colpo. O come se di spazio per sopportare un’altra apocalisse non ne abbia più.

In parte lo sono sempre stata: durante il blackout della Notte Bianca di Roma del 2003 sono rimasta chiusa in metropolitana di notte, al buio, in un tunnel sotterraneo. La gente urlava, isterica, mentre io e la mia amica P. scattavamo foto con la macchinetta fotografica. All’epoca non c’erano i selfie ma con macabro umorismo dicevamo che sarebbero state utili per la lapide.

Sarà un meccanismo difensivo, ma ora mi chiedo se questa sorta di molla interiore che finora mi ha sempre resa pronta a reagire ad un imprevisto ora non si sia rotta. Forse è stata tirata fin troppo.

C’è una cosa che mi aiuta molto. Ogni volta che mi sento sopraffatta da quello che mi sembra uno sforzo sovrumano (a mente lucida so che è solo una percezione e non la realtà) è pensare al bambino di Schindler. Avevo letto di lui nell’omonimo romanzo di Mondadori: ha resistito sei anni durante gli orrori nazisti.

Non mi sto paragonando a lui, per carità, sarebbe irrispettoso, fuori luogo e di cattivo gusto, come minimo. Pensare a questo bambino di cui non conosco il volto mi aiuta a riportarmi con i piedi per terra e a mettere nelle giuste proporzioni quello che mi capita.

Il Festival di Berlino 2020 è stato l’ultimo a cui abbia partecipato,
prima dell’avvento del Coronavirus

Sono una Pollyanna per natura, ma questo non esclude che viva mattine come quella odierna in cui mi senta meno ottimista.

Chi non conosce i retroscena della vita di un giornalista di spettacoli troverà a dir poco ridicolo che le bacheche di molti critici cinematografici oggi siano velate di nostalgia perché oggi sarebbero dovuti partire – come me – per il Festival di Cannes. Iniziano persino a desiderare le situazioni più deprecabili della manifestazione, dal classismo della separazione per colori sul badge alla diffusa scortesia (per dirla in maniera diplomatica).

Ci sentiamo tutti un po’ in gabbia. Una gabbia dorata, certo. Una gabbia domestica, assolutamente. Precaria, per noi freelance, ma dignitosa (si spera). È il senso claustrofobico di chi ha scelto un lavoro con la testa tra le nuvole, in una bolla dorata e scintillante dove si raccontano storie magiche e s’incontrano artisti eccezionali. Quando ti senti strappare via le ali di quel viaggio allora molti di quei colori smettono di risplendere. Usare le parole per descrivere una forma d’arte immersiva ma a distanza fisica da chi l’ha scritta, interpretata o diretta diventa un esercizio astratto da tastiera, con muri altissimi. Siccome questo è più di un lavoro, chi non lo vive per denaro o gloria (il 99% della categoria) con questa reclusione si trova a perdere non solo il senso della propria quotidianità ma anche una parte importante dell’identità individuale.

Ecco perché, tornando a stamattina, avevo solo il desiderio di dimenticare. Non volevo neppure ipotizzare cosa mi sarebbe successo se quella scossa fosse stata più potente e non avessi neppure provato a mettermi in salvo sotto lo stipite di una porta.

Paradossalmente l’istinto di sopravvivenza attivato con tutte le misure anti Covid-19, dalle mascherine ai guanti, in questo specifico caso avrebbe fallito. Come finire sotto una bicicletta mentre si cerca di evitare il meteorite che ti sta per colpire.

Al Bahamas International Film Festival 2019 come giurata

Questo turbinio di pensieri, vagamente catastrofico, mi ha quasi dato alla testa, per un attimo.

Ma ho deciso di fermarlo, di rifugiarmi nella bellezza, lasciando abbracciare dalla confortante gioia di un ricordo felice, di uno dei miei viaggi del cuore che oggi sembrano impossibili (la foto in alto, nel deserto del Qatar). Per non perdere la speranza che quei momenti tornino ad essere la mia realtà.

Quella in cui prendevo nello stesso giorno aerei internazionali di viaggi diversi dopo essere passata dieci minuti a casa per il cambio-valigia.

Quella in cui visitavo in alcuni mesi anche cinque o sei nazioni diverse, di vari continenti.

Quella in cui, aprivo gli occhi in preda al jet leg senza ricordarmi dove fossi o come ci fossi arrivata.

Quella in cui tutto il mondo era casa mia.

Qui tutte le “puntate” dei miei diari precedenti:

Qui le precedenti “puntate” della mia vita in lockdown: