Cosa succede quando il lockdown ti abbraccia nelle mure domestiche e un manipolo di operai t'impacchetta il palazzo e ti oscura persino il sole.
La vista dalla finestra, con operai sulla piattaforma del cantiere che imballa il palazzo

Anche se qui non abita Biancaneve e non c’è nessun bosco, gli uccellini cinguettano sempre fuori dalle finestre di questo angolino di Roma. O almeno lo facevano fino a che, qualche giorno fa, a svegliarmi ritrovo puntualmente stornelli slavi cantati a squarciagola tutto il giorno.

Si fa quel che si può, certo, io ho risposto con Rita Ora e Taylor Swift, ma non credo abbiano riscosso molti consensi. La convivenza, insomma, in tempo di lockdown si fa a dir poco intensa perché l’intero isolato ha pianificato due anni di lavori di ristrutturazione iniziando, secondo la Legge di Murphy, non solo dal mio palazzo ma dalla mia scala.

Ricapitolando: niente terrazzo, niente balcone, solo le finestre con vista sul soffitto del garage condominiale che a me sembrano una piccola Reggia di Caserta perché permettono alla luce di accompagnare le mie giornate davanti al pc. In particolar modo quelle in isolamento, con l’unica compagnia di vari pennuti a dir poco tenaci.

Questo silenzio quasi bucolico mi ha cullato settimana dopo settimana, interrotto solo da qualche sporadico corriere e da un paio di delivery. E – pandemia a parte – mi ci stavo abituando, mi sembrava insomma che il karma si fosse bilanciato. Per anni, infatti, sono stata deliziata dalle incessanti urla (con parolacce varie) di un paio di pargoli che ho affettuosamente ribattezzato “progenie di Satana”. Per capire il genere, la madre (nel fiore dei suoi vent’anni e rotti) ha chiamato nel mezzo della notte i carabinieri per denunciare il compagno (un omaccione che insegnava al maggiore, all’epoca di appena tre anni, a guidare la sua monovolume). Insomma, un’autentica delizia delle orecchie. Roba che a Ferragosto intonavano Jingle Bells con una pianola giocattolo che il bambino aveva ricevuto a Natale. Neppure a dirlo, erano i preferiti del vicinato (i dirimpettai di pianerottolo, anche loro genitori di due bambini, hanno prontamente traslocato).

Per farla breve, ho pensato di essermi meritato il riposo delle orecchie. Certo, non pensavo ad un “eterno” riposo, ma neppure ad un’orchestra di canti popolari dell’Europa dell’Est per otto ore al giorno fuori dalla finestra. Aprirla sarebbe impensabile: l’impalcatura che ha incartato la facciata si erge, spavalda, fino ad oscurarmi tutto il sole, creando quel suggestivo effetto-bunker che ti aspetti per il buongiorno.

Un angolo del monolocale “a senso unico”

La mia migliore amica suggerisce di offrire all’affiatato gruppo di operai una specie di “servizio-bar”, organizzando caffè e cornetti per tutti. In segno di buon vicinato, insomma. Io, invece, mi ritrovo persino a rimpiangere quando mettevo la scaletta accanto alla finestra per sedermici sopra e trovare la luce giusta per il solito selfie storto (rischiando di cadere, ovviamente). Almeno la luce ce l’avevo: il sole o le nuvole mi arrivavano dritti in fronte quando lasciavo scorrere sulla tastiera immagini ed emozioni.

La verità è che questo monolocale a me sembra davvero Versailles, anche se è “a senso unico” e non ho più neppure una parete libera da usare come sfondo per le video-chiamate di lavoro. Lo amo proprio, anche se l’intermediario che mi ha aiutato nella ricerca, mi chiama per dirmi che ha avuto una rivelazione e che dovrei sposare per dividere le spese con qualcuno. Con il suo bolo alla camicia e un cappello da cowboy, racconta di avventure esotiche in Sud America e personaggi da film. Si sente in pratica un coach life di Roma Sud e ha pensato bene di dispensarmi questo consiglio di vita previdente e oculato. Non ho avuto il cuore di dirgli che, in quanto ragazza nata e cresciuta nel Salento, mi è stato preparato il corredo di nozze quando ancora era nella pancia. Gli sorrido e abbozzo promettendo che ci penserò, ma intanto mi tengo stretto quello che penso davvero sia il mio angolo di paradiso, la mia fortezza della solitudine. O almeno lo era prima che questo gruppo ben assortito di operai dall’accento variegato mi occupasse tutta la luce.

Passatempi casalinghi nell’epoca pre-lockdown

Ho quasi un deja-vu dei miei anni con vista Tanaro, quando per un po’ avevo dimenticato cosa fossero i raggi del sole. Il ragazzo che frequentavo all’epoca, nel bel mezzo di un banco di foschia così fitto da impedirci di vedere al di là dei propri piedi, ha preso un respiro profondo e mi ha detto: “Non lo trovi romantico?”. Ho evitato di spiegargli che vengo dalle Maldive d’Italia e che quindi il fenomeno atmosferico noto in Piemonte come “scarnebbia” a me era stato felicemente ignoto fino a quel momento.

Il ritmo dei martelli pneumatici (e di una serie di altri arnesi di natura a me sconosciuta) mi tiene incessantemente compagnia sopra la mia testa in questi giorni al punto da spingermi a pensare che potrebbe causare in me qualche episodio d’isteria. Se lo aggiungiamo alle preoccupazioni del periodo, all’intermittente insonnia e all’incertezza sul futuro… beh, il mix potrebbe diventare a dir poco kafkiano.

I lavori in corso dell’intero isolato

E poi, all’improvviso, il genio: qualcuno degli operai ha intonato Umberto Tozzi. E, sottovoce, mi sono aggiunta al coro. Forse, dopotutto, avevo solo bisogno di conoscere le parole delle canzoni.

Magari fra qualche settimana m’insegnano pure il mestiere. Di questi tempi potrebbe tornare utile…

Qui tutte le “puntate” dei miei diari precedenti:

Qui le precedenti “puntate” della mia vita in lockdown: