Sembra un gioco di specchi: la realtà sembra un incubo e gli incubi non potrebbero essere più reali. Notti insonni, domande senza risposta e voli pindarici improbabili: è la ricetta by night del mio lockdown.
Durante un’intervista virtuale

Ho visto in rete una t-shirt con la scritta “More pasta, less drama”. E a pensarci bene di questi tre mesi da sola in lockdown nel “monolocale a senso unico”, i momenti a tavola sono stati quelli più placidi. Nonostante un corso di pasticceria avanzata e uno di cucina, con tanto di lezioni sul servizio alla francese e all’inglese, il menù resta piuttosto ripetitivo. Qui niente lievito madre o affini, solo qualche pizza scongelata ad arte e qualche crema pasticcera (ma senza torta). Insomma, i soliti paradossi del quotidiano.

Il resto lo ricordo come una nebulosa indistinta: giorni tutti uguali, agenda vuota, zero incontri, figuriamoci viaggi. La realtà è diventata un incubo e gli incubi diventano reali. In senso tutt’altro che metaforico.

Lavorando da freelance da casa, non ho avuto mai l’esigenza di andare in redazione: le “uscite” del mestiere sono conferenze, interviste, set visit, shooting, festival. Di questi tempi scrivo di fronte alla finestra con il sottofondo degli stornelli slavi degli operai e a stento ricordo in che mese stiamo. Di tanto in tanto citofona il portiere o il corriere e – sporadicamente – qualche delivery.

Da quando apro gli occhi mi sveglio mio malgrado in una vita che non riconosco più, semplicemente perché non è la mia e neppure so bene a quale stadio del lutto sono per la sua perdita.

foto: Unsplash

Di questi tempi è successo di tutto: ho perso un amico senza neppure poter andare al funerale, un altro si è ammalato di Coronavirus (fortunatamente è uscito poi dalla terapia intensiva e ora sta meglio), ho assistito alla laurea in videoconferenza di un parente, ho festeggiato virtualmente il compleanno del mio sito, ho smesso di prendere per il momento la metropolitana (prima del Covid-19 scendevo da un aereo internazionale e salivo sul successivo come se fossero autobus urbani). Al massimo sono stata da qualche piccolo negoziante della zona a manifestare il mio sostegno con qualche acquisto, sorridendo senza che potesse neppure accorgersene, vista la mascherina.

Ad inquietarmi maggiormente in questo limbo ci pensa il calare del buio, quel rigirarsi di continuo e per ore nel letto con la mente che frulla di tutto. Mi sembra di fare la centrifuga ai neuroni, mi vengono in mente domande strampalate a cui neppure Piero Angela saprebbe rispondere, tiro fuori dal cassetto dei ricordi gli episodi più insignificanti e dolorosi, passo scompostamente da un pensiero all’altro senza alcuna progettualità. Questa nebbia si traduce in binge-watching nella migliore delle ipotesi, in piadine alla nutella nella versione più calorica e uno stato d’agitazione che continua fino all’alba.

Il lato positivo di poter scansionare l’orario di lavoro consiste nel fatto che ti puoi addormentare alle cinque del mattino e metterti all’opera dopo colazione, anche se arriva alle tre del pomeriggio, tanto puoi continuare ad essere produttiva fino a notte fonda e non cambia poi tanto. Dovrebbe essere come il jetleg, ma non lo è perché scambio il giorno con la notte ma sempre con orari diversi e quindi destabilizzanti.

Quando mi addormento sogno amici, parenti, conoscenti e persino gente che ho incrociato solo una volta in vita mia e si comportano tutti nella maniera più imprevedibile e angosciante possibile. Continuano a fare, notte dopo notte, cose senza senso, in luoghi inquietanti che sembrano location da film horror oppure posti della quotidianità trasfigurati in maniera terrificante.

Durante le presunte ore di sonno mi sveglio ad intermittenza senza rendermi conto per alcuni secondi di quanto succeda. Quando metto a fuoco la situazione non provo alcun senso di sollievo perché avranno anche aperto le frontiere ma onestamente non saprei dove andare e a fare cosa. L’effetto “criceto sulla ruota” in una gabbia, seppure dorata e domestica, è talmente straniante da darmi l’impressione di vivere in The Truman Show o in qualche sorta di esperimento distopico e postapocalittico (di quelli che amo tanto su carta, ma di cui certo non vorrei essere la protagonista nella realtà).

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I canti sui balconi (altri) e i disegni con la scritta “andrà tutto bene” aiutavano all’inizio, ma dopo tre mesi ancora non ho ben capito come cambiar pelle pur restando la stessa. E mettendo tra l’altro a tacere queste presenze notturne che popolano i miei incubi e che di certo non svaniscono quando riapro gli occhi.

Ecco perché – con tutto il rispetto per Bergman e Bunuel – di questi tempi al cinema impegnato preferisco la serialità casual, quella dei “guilty pleasure” e della leggerezza, dei titoli Hallmark e degli steccati bianchi, dove non esistono conflitti, ma solo unicorni e arcobaleni e il massimo del problema resta il bordo bruciacchiato di una torta da portare al picnic del quartiere.

Vivo in tuta da tre mesi – con qualche camicia indossata ad hoc per le videointerviste – e non oso nemmeno provare a controllare a che punto del girovita si fermino i pantaloni o le gonne o gli abiti. Siccome non bevo, non fumo e non faccio uso di sostanze stupefacenti, ho smesso da tempo di chiedere scusa per le calorie. Immagino di aver messo su qualche chiletto (la combo quarantena+frigo non delude), ma se avrò voglia e modo li smaltirò quando potrò davvero muovermi e uscire dal lockdown, anche se probabilmente in forma diversa.

Anche Bridget Jones diceva che Ciocco e Lato sono di grande compagnia e io di certo non mi vergogno ad ammettere che assieme allo streaming sono diventati come una pallina anti-stress. A volte funzionano per l’insonnia, altre no. Invece di andare fuori di testa cerco di ripetermi che è una condizione condivisa e che occorre pazienza. Io non ne ho tanta e con l’età diminuisce vertiginosamente, però ho capito come prendermi cura di me nel modo in cui posso. E soprattutto, sto imparando ogni giorno a non giudicarmi, a non sentirmi in colpa ad ammettere le fragilità. Quando qualcuno mi scrive o mi chiede “Come stai?” non liquido più la domanda con un “Bene, grazie, e tu?”. In tutta onestà rispondo: “Alti e bassi”. E se all’interlocutore interessa, posso elaborare il concetto.

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Ammiro con tutto il cuore chi invece in questo periodo sembra rinato, con agenda fittissima, messa in piega perfetta, muffin sempre caldi e giardini da fare invidia a Versailles. Probabilmente alcuni altri l’hanno presa meglio di me o mascherano il disagio con maggior disinvoltura. Io non ho la minima intenzione di spendere un supplemento di energie ad impersonare la casalinga perfetta che cuoce, impasta e dorme come la Bella Addormentata. Mi tengo le mie rocambolesche imperfezioni e le accetto, anche se ovviamente cerco di smussare gli angoli.

Di questi tempi sono diventata più indulgente con me stessa perché non credo esistano manuali d’istruzioni per come “vivere la pandemia felice e contenti”. Ma, invece di glassarmi di retorica e buonismo, ho capito che me la passo meglio seguendo pagine irriverenti sui social (come Il triste mietitore), guardando video ironici (il cielo benedica Crozza e la sua imitazione del Presidente De Luca!) e consigliando tutto quello che mi fa star bene, da un profumo ad un tv movie, perché magari a qualcuno può strappare un sorriso o una risata come succede a me. Astenersi musoni seriosi, paladini delle cause perse e maestri di vita altrui (per questo 2020 ho già dato!).

Qui tutte le “puntate” dei miei diari precedenti:

Qui le precedenti “puntate” della mia vita in lockdown: