Ormai è diventata un’abitudine, ma di quelle salutari. Quando qualcuno mi chiede “Come stai?” non rispondo più con il solito, sbrigativo e diplomatico “Bene” ma con più onesto “Alti e bassi”. Mi costa di più ma la verità ha sempre un prezzo e, specialmente in questi tempi incerti, mi fa bene guardarla in faccia invece di nasconderla dietro alle “convenzioni sociali”. Siamo nel bel mezzo di una pandemia, quindi direi che possiamo mollare alcune zavorre ipocrite e concentrarci su questioni più importanti, a partire dalla sopravvivenza.
Sabato scorso ho avuto una delle rare giornate serene da quando il Coronavirus mi ha cambiato la vita. Non è successo niente di sorprendente e straordinario, il che in questo periodo di per se ha già un valore enorme. Una delle mie migliori amiche mi ha proposto un giro all’IKEA all’ora di pranzo per mangiare le polpette svedesi a cui durante la prima visita al negozio abbiamo rinunciato. Non certo per uno slancio dietetico, sia chiaro. Semplicemente non ci eravamo accorte che con l’orario ridotto il ristorante a cena sarebbe stato chiuso. Quindi già avere, una volta tanto, il controllo di qualcosa mi è sembrato miracoloso. Anche se non ho fatto grandi acquisti – per la prima volta sono uscita con 1 solo euro sullo scontrino, per un portacandele – ero tutta pimpante perché almeno la missione-polpetta aveva avuto successo. La giornata è trascorsa con una commissione dopo l’altra e ci siamo salutate dopo la tradizionale fermata in rosticceria per il pollo arrosto. Ci siamo persino concesse un supplì.
Per la serata il programma prevedeva qualcosa di fuori dalla routine del lockdown. Tre dei miei colleghi internazionali della giuria di preselezione fiction del Festival della TV di Monte-Carlo, su idea di uno di loro, hanno organizzato una chat a quattro con me – visto che ormai sono dipendente da Queer Eye, il nome Fab Four mi piace ancora di più di quando l’ho usato per noi qualche anni fa – per celebrare il weekend in cui avremmo dovuto presiedere alla cerimonia di chiusura a Monaco.
Siamo stati su Skype tante ore, a chiacchierare come al solito e a bere – ok, io ho dimenticato di preparare un drink analcolico e oscillavo tra acqua e Coca-Cola – oltre che a ricordare i momenti buffi trascorsi insieme nelle passate edizione. Dopo quattro mesi, ho persino deciso di mettere un vestito. E non uno qualunque, ma quello su cui uno di loro si divertiva a stuzzicarmi: volevo rendere omaggio ai bei ricordi insieme.
Ad un certo punto, come da tradizione, è partito il dj set. E, a turno, ciascuno di noi, chiedeva una canzone. La playlist è stata dominata da Madonna, con incursioni di Whitney Houston, Donna Summer, Marvin Gaye, The Pointer Sisters e molti altri. Siamo sempre stati gli ultimi a lasciare, sempre insieme, la pista da ballo alle feste (mi capita solo lì, dove mi sento oramai a casa da oltre un decennio) e il Palazzo dei Principi dopo il cocktail privato di Sua Altezza Alberto II di Monaco.
Per un po’ ho davvero pensato di essere lì, anche se mi dimenavo sulla poltrona della scrivania e nel mio “monolocale a senso unico” non c’è abbastanza spazio per saltare oppure ondeggiare senza imbattersi in qualche spigolo. Ho subito ripensato a quando Pedro Alonso (Berlino de La Casa di Carta), davanti a tutti, quando gli ho fatto una domanda in conferenza stampa, prima di rispondere mi ha guardato negli occhi e ha detto: “Ah, sei tu? Ti ho visto ieri alla festa. Hai ballato tutto il tempo come me”.
Ovviamente sono diventata paonazza, ma non prima di scoppiare a ridere. Il tintinnio di quella risata mi rimbomba nelle orecchie perché è il suono di una felicità fatta di piccoli-grandi momenti. Con l’attore, poi presidente di giuria al festival, ho avuto modo di parlare sia in ambito professionale – in una lunga intervista singola con vista mare al termine della quale ha mandato il video-messaggio di saluto al sito – sia a livello umano, durante queste occasione sociali legate all’evento, ma alcune situazioni acquistano un peso specifico maggiore di altre. E ballare tutti insieme, senza ruoli, a bordo piscina al Monte-Carlo Bay Hotel, resta di sicuro una delle gioie della mia vita.
Ho ripensato a quando Shemar Moore di Criminal Minds è salito in consolle per mixare alcune canzoni per poi improvvisare un ballo scatenato sul cubo con strip tease annesso in stile Magic Mike, ma tenendosi i pantaloni addosso.
Ciascuno a casa sua, in quattro nazioni diverse, i miei colleghi e io abbiamo continuato la serata come se fosse uno di quei sabato sera con party al chiaro di luna e fuochi d’artificio. Nell’aria sentivo l’elettricità statica dei ricordi e una nostalgia dolcissima.
Poi è successo. Il mio amico ha messo Can’t stop the feeling! di Justin Timberlake e Blurred Lines di Pharrell Williams. E la diga delle emozioni si è rotta. Gli occhi mi sono diventati lucidi e, prima che me ne accorgessi, le lacrime hanno iniziato a rotolare giù dalle guance mentre ballavo. Queste due canzoni sono state inserite in tutte le serate di ogni anno in cui ho fatto da giurata al Festival: quando mi capita di sentirle alla radio mi catapultano immediatamente a Monte-Carlo, in quell’esatto momento della festa in cui tolgo i tacchi e metto le ballerine, convinta che il livello alcolico nei presenti renderà impossibile il ricordo di questo piccolo imbroglio.
Per la durata dei due brani il tempo si è fermato e ho quasi smesso di respirare perché non ero più di fronte al computer con la finestra aperta sul cantiere del mio palazzo, ma mi sono ritrovata al centro della pista, di nuovo me stessa, di nuovo felice.
Quando provi la gioia di sapere di trovare un posto di mondo che ti appartiene non per una botta di fortuna ma perché hai costruito, mattoncino dopo mattoncino, la strada per arrivarci è dura lasciarlo andare, dirgli addio anche solo per un anno in più e non sapere se ci ritornerai e come sarà.
Ecco perché anche se di fatto sabato ho trascorso una piacevole giornata, quella nuova normalità non ha retto il confronto con la mia vita precedente. Ho dovuto ammettere a me stessa e ai miei amici collegati via Skype che mi si strizzava il cuore a pensare all’abissale differenza tra questo weekend – per quanto gradevole – e quello del 2019 al Festival.
Non bisogna essere giornalisti per capire che ognuno di noi nel proprio mestieri ha colleghi con cui si trova meglio, situazioni che lo mettono a proprio agio e luoghi dove si lavora con maggiore tranquillità. Ed è naturale desiderare una situazione come questa rispetto ad una più tossica dove invece ci sono invidie, colpi bassi, manie di protagonismo e scorciatoie. Mi ricorda un proverbio amatissimo da mia nonna che tradotto dal salentino all’italiano suona più o meno così: “Frequenta persone migliori di te e paga loro da bere”. M’incitava a migliorarmi, a non confrontarmi con la mediocrità per cullarmi nella sufficienza e mi spronava ad imparare da chi ne sapeva di più e di rendergli omaggio, sapendo che ovviamente avrebbe comportato una certa fatica, che qui in senso letterale sarebbe il prezzo della bibita.
I miei colleghi in chat, essendo british, ovviamente non hanno la mia stessa disinvoltura nel condividere i sentimenti, ma sono bravissimi a trovare una prospettiva pratica e rassicurante. Mi hanno detto che, a prescindere da quello che succederà, nessuno ci potrà privare di quei ricordi e che noi rimarremo sempre noi. Probabilmente non vediamo un futuro perché è tutto incerto e nebuloso e magari alcuni appuntamenti del nostro settore ritorneranno. Se così fosse aver saltato un’edizione ci permetterà di tornare con maggiore gratitudine ed energia, ricordandoci quanto fosse straordinario quello che a lungo abbiamo considerato ordinario.
Così, come ogni anno a fine festival, ci siamo detti solo “Arrivederci”. Per la prima volta non so se sarà o meno un “Addio” ma voglio crederci. Nessun’altra opzione è più possibile.
Qui tutte le “puntate” dei miei diari precedenti:
E qui le precedenti “puntate” della mia vita in lockdown:
- Coronavirus, una storia di gentilezza (stra)ordinaria
- Coronavirus, il giorno in cui ha smesso di essere un numero ed è diventato il nome di un mio amico (articolo pubblicato da Vanity Vair in italiano e qui tradotto in inglese)
- 1 anno di virgolette: tanti auguri, Air Quotes!
- Coronavirus, quando un terremoto non fa più paura
- Coronavirus, perdere un amico e non potergli dire addio
- Coronavirus, la prima Messa dopo il lockdown
- Coronavirus, il ritorno in posta
- Coronavirus, aggiungo un posto a tavola dopo il lockdown
- Coronavirus, il giorno in cui mi hanno oscurato il sole
- Coronavirus, la pandemia che mi ha rubato il sonno
- Coronavirus, la giostra delle “prime volte”: la colazione al bar, lo shopping e il McDonald’s
- Coronavirus, il primo giretto da IKEA
- Coronavirus, la prima cena al ristorante (con sorpresa)
- Coronavirus, il primo bacio
- Coronavirus e quei piaceri proibiti
- Le interviste (folli) ai tempi del lockdown
- Coronavirus, finalmente il vaccino (da volontaria)