Curvy (e sto). Ho imparato a volermi bene, senza più nascondere rotolini e maniglie dell'amore, che Bridget Jones chiama "ciccette sballottolanti". E l'ho raccontato sull'articolo appena uscito su Io Donna, il settimanale femminile del Corriere della sera.
Uno scatto a Nassau in occasione del Festival delle Bahamas 2019 in qualità di giurata

Io Donna, il settimanale femminile del Corriere della Sera, mi ha chiesto di scrivere un articolo sulla mia esperienza personale sulla body positivity. Eccolo:

Le “ciccette sballonzolanti” di Bridget Jones piacevano molto al suo Mark Darcy. Le mie, invece, suscitano una reazione che passa dal panico alla compassione. Succede tutte le volte che metto piede in un negozio d’abbigliamento italiano, soprattutto in vista della prova costume all’indomani del lockdown. Altro che maniglie dell’amore: le commesse mi fissano tutte, allarmate. Non faccio neppure in tempo ad avvicinarmi ad una maglia che una di loro, furtiva, si avvicina e mi dissuade. Scuote energicamente il capo, come a dire: “Per te qui non c’è abbastanza spazio”. E, appena nomino la X prima della L, risponde con fare cospiratorio: “Capi del genere non li trattiamo assolutamente”. Come se il “genere” in questione fosse l’horror.

Ci riprovo, persino più a disagio di prima, buttandola sul ridere: “Ad una ragazza diversamente magra come me cosa consiglia, allora?”.

S’irrigidisce ancora di più: “Sulle bancarelle si trovano cose di tutti i tipi, guardi lì, non si sa mai”. E, per essere sicura che mi levi di torno in fretta (forse per non turbare la clientela con il mio ingombro eccessivo), mi scorta persino all’uscita.

Nel mio Paese la vita da plus size va così. Se guardo le vetrine mi sento sempre “fuori misura” – e quindi sbagliata – e quando vado a fare shopping devo avventurarmi negli angoli più remoti dei negozi, quelli che un tempo Blockbuster riservava alle VHS per adulti e che oggi evidentemente hanno convertito in reparto “taglie comode”. Ma comode per chi?

Nulla contro i rettilinei, sia chiaro, ma esistono pure le curve. E no, non si tratta di “grasso è bello”, ma di civile convivenza.

Mi piacerebbe non sentire più il prete che sbotta durante la confessione e mi consiglia di mettermi a stecchetto per “esaltare la femminilità”. Una sorta di versione diplomatica del più spietato: “Figliola, se non vuoi restare zitella a vita, cerca di dimagrire e tornare sotto la 44”.

Quelle ironie su Facebook

A sinistra, io nella foto per il compleanno della compagna di classe (che ha suscitato i vari commenti online sulla sua bacheca)

Certo, apprezzo lo sforzo del politically correct, che nel più educato dei casi mi chiama morbida (o morbidissima, se preferite). Io mi sono affettuosamente ribattezzata “taglia Nutella” proprio perché ho imparato ad amarmi così come sono, ma l’autoaccettazione non mi rende impermeabile a tutto.

Infatti avrei preferito che la mia ex compagna di scuola avesse smorzato i toni dei commenti fatti dai suoi amici di Facebook nei miei confronti. Sotto la foto di noi due, davanti ad una torta di compleanno delle elementari, il più garbato la invitava a fare attenzione: “Quella – ha scritto – si mangia pure te” (foto in alto).

Il look con la maglia stile impero che il benzinaio ha scambiato per premaman

E mi sarebbe piaciuto non sentire il mio ragazzo dell’epoca ridere a crepapelle quando alla stazione di servizio il benzinaio mi ha regalato un kit nascita insistendo sul fatto che fossi incinta (non lo ero). ( foto in alto)

Me ne sono stata zitta e ho abbozzato anche in quel caso, come tutte le volte in cui la signora delle pulizie mi chiamava “cicciona” mentre contava ad alta voce il numero di lattine di Coca-Cola nel cestino. E invece no, ho pensato sempre che in qualche modo me la fossi cercata, anche quando un cameriere al ristorante, facendomi l’occhiolino, mi ha suggerito un’insalata scondita invece delle patatine fritte che avevo ordinato.

L’esperienza della dieta

59 chili e 175 centimetri, correva l’anno 1996

Sconosciuti, amici o parenti: tutti, dalla pubertà, si sentono in diritto di darmi consigli non richiesti per farmi “stare meglio”. Una volta li ho pure ascoltati e mi sono messa a dieta (risultato: 59 chili per 175 centimetri di altezza).

Seguivo un regime alimentare diverso, ma non avevo mica trovato una bacchetta magica capace di limare le “ossa grosse” ereditate dal ramo paterno della famiglia, un ibrido tra una stirpe di amazzoni e una di vichinghe. Certo, mi ero affrancata dall’angolo per le taglie forti, ma ancora non capivo dove stesse questa famigerata forza (magari nelle cuciture?). La magrezza non mi ha regalato alcun briciolo d’autostima in più, mentre continuavo a sognare la lasagna a giorni alterni.

C’è voluto un viaggio a Londra per farmi capire che in me non c’era niente che non andasse. Esiste, invece, una ragione precisa per cui in patria non sono mai riuscita a trovare abiti decenti oltre la large. Me lo ha spiegato la manager di uno store a Piccadilly Circus: “L’Italia in fatto di taglie è meno generosa”. Vuol dire che il Belpaese taglia i centimetri su cosce e fianchi per aderire a presunti standard di perfezione mentre la stessa gonna, dello stesso brand e della stessa taglia negli Stati Uniti e in Inghilterra veste meglio.

Nello store Gap di Piccadilly Circus a Londra con un paio di jeans taglia 44 (la più grande), che mi si chiudeva – anche se a fatica – mentre in Italia ho la 48-50

Undicesimo: non giudicare

L’ho sperimentato a Los Angeles poco tempo dopo, in un negozio di jeans. Tutta timorosa, ho avvicinato la responsabile per chiederle se avesse una 46 e lei ha alzato le sopracciglia. Ho pensato: “Ecco, ci risiamo, ora mi dice di andare a cercare un sacco e buttarmici dentro”. E invece no, mi ha invitata a guardarmi attorno: molte altre donne, inclusa lei, vestivano una “over” e avevano trovato il pantalone perfetto per assecondare – invece di nascondere – la propria fisicità.

I jeans Levi’s comprati a Los Angeles e indossati a Hollywood, davanti al Chinese Theatre

Ci ho preso gusto e da allora ho sempre acquistato tutto all’estero, libera dall’abituale senso di colpa alla “scusate se esisto”. Così l’abito per le nozze dei miei migliori amici l’ho cercato – e trovato nel giro di 20 minuti – ad Amsterdam. Unico inconveniente? La proprietaria della boutique pensava fosse per il ragazzo che mi accompagnava, convinta che volesse vestirsi da drag. Nulla di strano: varcati i confini nazionali, infatti, ognuno ha la libertà d’indossare ciò che vuole, senza giudizi o micro-aggressioni, verbali e non.

L’abito acquistato ad Amsterdam, qui indossato poi anche al Palazzo dei Principi di Monaco durante il Festival della TV di Monte-Carlo, in occasione del cocktail privato organizzato dal Principe Alberto II e a cui ho partecipato in qualità di membro della giuria

Per fortuna, comunque, sono anche circondata da “guru del buonumore”, come la mia sarta Andrea, una pixie colombiana fonte d’infiniti racconti su clienti “spaziose” il doppio di me e sempre sorridenti. Anche la madre fa acquisti solo negli States dove la democrazia si misura anche nell’abbigliamento, sia in larghezza che in lunghezza, e con tre diverse opzioni (petite, average e tall). È lei la prima a festeggiare l’unico abito che le abbia mai chiesto di stringere… e non perché abbia ridotto il girovita, sia chiaro. L’ho semplicemente comprato in Florida, dove tutto è disponibile dalla taglia “signora Minù” a quella “Totoro”. Nel centro commerciale di Orlando ho trascorso una giornata intera in stile Alice nel Paese delle Meraviglie e senza considerarmi più una scena del crimine o un corpo del reato.

La gioia dello shopping in un centro commerciale di Los Angeles nel 2007

Oggi ho smesso di pesare il mio ingombro nel mondo e ho ripreso a sorridere gustando un bel gelato artigianale. A Roma, ho trovato un delizioso monolocale in una zona “inclusiva” (nel senso che gli abitanti vestono contemporaneamente il leopardato e lo zebrato), dove il proprietario della rosticceria di quartiere, Alvaro, mi chiama per nome e mi prepara “il solito”. E sono serena con me stessa.

Ho trovato l’equilibrio

Per me “body positivity” vuol dire aver trovato un equilibrio, dopo essermi confrontata con una nutrizionista, e aver imparato a chiedere un rispetto maggiore. Ho voglia d’immaginare una realtà in cui le aziende italiane insegnino alle commesse un approccio più corretto e promuovano capi per tutte e non solo per i manichini o poche elette. Sogno un posto in cui non esista la segregazione per grasso corporeo, con spazi dedicati, come ai fenomeni da baraccone. Uno che metta a disposizione una scelta per ogni esigenza – dal fast fashion all’alta moda – e non faccia elemosinare un centimetro di stoffa in più.

A Toronto nel 2019 gustando un gelato in allegria

L’articolo è stato pubblicato il 27 giugno 2020 su Io Donna, settimanale femminile del Corriere della Sera.

Del tema del body shaming ho scritto in prima persona sul quotidiano Leggo (qui nella traduzione in inglese) e ne ho poi parlato sul palco di Stand up for girls, nell’evento 2019 organizzato da Terre des hommes a Milano (qui il video e la trascrizione del discorso all’evento).

Ci sono tante artigiane italiane che puntano sull’inclusività e sul body love (in calce l’elenco di alcune che vogliono fare la differenza). E qui una carrellata di alcune loro creazioni:

Carolina Emme

Guardastelle

Fabbrica di giuggiole

Eflodì (Elisa)

Vagamente retro (Elena Gradara)

Yogette

By Alis (Alessandra)

MisStufi

Sartoria sovversiva (Sara B)

The Body Positive Bikini (Laura Brioschi)

Fatti Fatty

Come le ciliegie

Rosetta moda Positano